VALORE DI UNA POESIA - IL CIGNO - DI CHARLES BAUDELAIRE (un saggio di Salvatore Solarino)
(Baudelaire disegnato da Manet, 1862-1868)
VALORE DI UNA POESIA - IL CIGNO DI CHARLES BAUDELAIRE
un saggio di Salvatore Solarino
Motivazioni
Dai lontani anni Settanta, allora che acquistai una prima copia de Les Fleurs du Mal di Charles Baudelaire, curata da Giovanni Raboni per le edizioni Mondadori, ricordo di aver letto pochissime volte la poesia Il Cigno, e ogni qualvolta mi apprestavo a rileggerla col preciso intento di voler scandagliare sulla pagina aperta i recessi di un linguaggio che procede essenzialmente per figure, non soltanto quelle comprese nei manuali di retorica, ma sopratutto quelle che più risaltano nel senso di miti, simboli, personaggi, che ne costellano i versi dal primo all’ultimo, e ne determinano il senso dell’infinito baudeleriano e della realtà del suo tempo. Nonostante allora mi ritenevo ancora lontano dall’averne afferrato compiutamente il profondo messaggio umano che affiorava dai versi folgoranti di un lirismo di stupefacente bellezza, solo di recente, dopo una forse non tanto casuale rilettura del testo, credo di aver superato in modo del tutto naturale l'impatto emozionale che mi suscitavano i versi struggenti de Il Cigno, quando mi si è d'improvviso rivelata l’immensa profondità di un canto che nel suo insieme risulta essere tanto sorprendente quanto complesso. Ciò a ulteriore dimostrazione che la poesia, indipendentemente dalla lingua di origine con la quale è stata composta, possegga un linguaggio di per sé universale, che se pur ricercato nei termini e nei segni che lo contraddistinguono, tocca valori inequivocabili e assoluti che vanno oltre ogni tempo e confini geografici presupposti. E a quel punto, per quanto possa ritenere in certo qual senso riluttante per me operare la vivisezione di un’opera, come stessi a smembrare in ogni sua parte qualcosa che ancora palpita, ne è a ragione seguito un incessante lavoro di indagine e di riflessione. Un impegno che va inteso come proposito di soffermarsi su di una poesia nel suo proseguire il viaggio attraverso il tempo. A questo proposito, al fine di rendere più comprensibili i motivi e le circostanze che ne hanno ispirato i versi profetici de Il Cigno, e venire incontro al lettore meno informato, ho ritenuto indispensabile riportare alcuni accenni circa il profilo psicologico e caratteriale dell'autore, e delineare alcuni aspetti generali del clima storico - sociale - letterario in cui egli è vissuto, avvalendomi per altro delle citazioni e dei dati biografici essenziali riguardo la sua vita e le sue opere. Un modo comunque, per riportare ad un eventuale pubblico di appassionati quello che in fondo ho semplicemente cercato di rendere nel modo più chiaro a me stesso, nel pieno riguardo della figura e la memoria del grande poeta francese.
Sono
trascorsi più di centocinquanta anni dalla composizione de I Fiori del Male, un'opera
evidentemente datata, che appartiene ormai al passato. Ma nonostante il
considerevole arco di tempo che ci separa dalla sua stesura definitiva, in essa
traspaiono le problematiche di fondo che turbano l'uomo della società
contemporanea definitivamente transitata nell'era post-industriale. Un lirismo
dalle qualità profetiche rispetto al quale il critico e saggista G. Macchia,
intuendone quell’inequivocabile precorrere i tempi, scrisse; “Baudelaire si avvicina a noi man mano che il
tempo sembra distaccarlo”. Una
volta tolti i velami puramente estetici che rivestono i versi crudi e sofferti
di Les Fleur du Mal, è quindi possibile scoprire tutto il senso e la
vitalità di una poesia che in sé porta il germe di una nuova civiltà, e come
tutte le cose destinate a durare essa ci arriva inalterata nel tempo. Notoriamente
considerato erede della poesia tardo-romantica, Baudelaire ne approfondirà i valori e le tematiche, che
partendo dall'esempio di Thèophile Gautier, il mago, il maestro e amico al
quale dedica i suoi fiori malsani, ha dato origine ad una linea
evolutiva della parola poetica il cui contributo è stato determinante per
l'affermarsi della poesia moderna che, all'insegna del simbolismo, sarà
destinata ad influenzare un'epoca e inaugurare una nuova stagione delle lettere.
Il linguaggio nuovo quindi, rigenerato dall’energia scaturita dal simbolo,
quale mezzo di un'espressione più alta ed evocativa, veicolo a sua volta di
trasmissione di valori altrimenti inesprimibili.
Se
pure animato dal culto per la perfezione formale e dal rifiuto per il verso
approssimativo e superficiale che fu tendenza predominante dei poeti
parnassiani, Baudelaire ne prenderà in ogni caso le distanze, tendendo ad
adeguare questo nuovo impulso della parola poetica alla crescente esigenza di
esprimere la decadenza e il disagio dell'uomo moderno catapultato nelle
solitudini del deserto di sterminate metropoli. Ma all'interno di
questa tendenza nuova e modernizzante del verso baudelairiano, Spleen e Ideale
si alternano, si fondono nella ricerca spasmodica dell'Oltre, di un Assoluto
la cui essenza, al di là del consueto, se non la Morte o la Noia,
risulta essere la Bellezza. Una bellezza a sua volta pervasa da una estenuante
visione di puro spiritualismo che oscilla tra Bene e Male, le cui condizioni di invenzione
comportano l’attraversamento di un campo negativo della realtà, i cui stimoli
che se ne traggono danno corso ad un processo psichico di percezione
sensoriale e meditativa che trovano risposta in una sintesi offertaci da T.
S. Eliot, secondo il quale “La contemplazione
dell’orrido o del sordido o
del disgustoso da parte di un artista è l’aspetto necessario e negativo
dell’impulso che porta alla ricerca della bellezza”. Un’esperienza
psichica appunto, attraverso cui la sublimazione poetizzante della parola trova
definitiva collocazione in quella sospensione del tempo chiamata Eternità.
Charles Pierre Baudelaire, poeta, prosatore,
saggista, traduttore e critico d'arte, nasce a Parigi il 9 Aprile del 1821. Le
varie biografie redatte sul suo conto riportano le vicissitudini di una vita
segnata fin dall'infanzia dal conflittuale rapporto di famiglia. L'espulsione
dal collegio, la parziale dilapidazione dell'eredità paterna avvenuta in poco
tempo, e l'interruzione di un viaggio verso l'India impostogli dalla famiglia,
per allontanarlo a loro modo dalla sua “vita libera” e dalle “cattive
amicizie”, dal punto di vista psicologico e caratteriale appaiono come un
chiaro sintomo della sua insofferenza a una vita ordinaria e conformista. E il viaggio per Baudelaire, quale estremo
cantore della poesia urbana, sarà un viaggio dell'anima che continuerà tra gli
splendori e il fasto de La Ville
Tentaculaire, quindi egli è il flàneur,
il camminatore che osserva e contempla mentre incede immerso nella “brulicante tela di Parigi”, città
emblema di una società che si va omologando ai clichè imposti dalla insorgente civiltà industriale. Una Parigi
corrotta dai vizi e dalle miserie di uomini oramai senza identità, divenuti parte
indivisibile di quella folla anonima, alienata, ridotta a merce, spettri di una
società, di automi, numeri che obbediscono alla legge disumanizzante del lavoro
e del profitto nello svolgersi di una progressiva e inesorabile dissoluzione di
valori.
Una personalità complessa, raffinata la sua, e al
contempo attratta dal gusto della miseria e dell'orrore per l’appunto, il cui
spirito antiborghese assumerà contro la mediocrità intellettuale del suo tempo
lo stile di vita anticonformista e provocatorio del Dandy. Gli stati alterati di
coscienza provocati dall'uso che egli fa delle droghe e dell’alcool, gli
ispireranno il poema in prosa dal titolo I Paradisi Artificiali, dove
Baudelaire affronta la questione degli stupefacenti sulla scia di una prosa
scientifica attenta e coerente agli effetti e gli stimoli che hanno sulla
creazione artistica, anticipando di parecchi decenni i trattati analitici sugli
effetti delle droghe avanzati da Freud.
Diviso nel profondo da una insanabile dualità tra
il Bene e il Male, tra Dio e Satana, egli assume la condizione dell'angelo
caduto, di dannato che ha disobbedito al Dio, lo stesso Dio che vede nella figura
dispotica ed autoritaria del patrigno, che si estende per essere sostituita dall’immagine
del Dio imperante della morale borghese, che trova espressione nelle sentenze
dei tribunali francesi, i quali condanneranno la sua opera definendola
“pubblicazione oscena”. Un’antinomia che comunque si origina da
quell’alternarsi di forze contrapposte, incompatibili, che si palesano
nell’uomo come instabile equilibrio psicologico generato dal contrasto tra
desiderio e realtà contingente, che
ne determinano appunto le profonde inestricabili conflittualità dell’essere in
una rovinosa rivolta contro se stesso. Quel se stesso dunque, sul quale si
condensano e si esauriscono tutti i veleni di una vita, dalla cui quintessenza
ne nasceranno I Fiori del Male.
Un percorso esistenziale
evidentemente doloroso il suo, che conta due tentativi di suicidio, i cui sintomi autolesionisti
affiorano nella poesia L'heautontimoroumenos; “Io sono la piaga e il coltello / la guancia e la percossa / lo
slogatore e le ossa / la vittima e il
carnefice”.
Un’antinomia che sotto altro aspetto assume un carattere decisamente proteiforme, nel senso delle qualità divinatorie proprie della figura mitologica di Proteo, ed affini con il poeta veggente, la cui funzione come per il dio era quella di mettere l’uomo in relazione con l’ignoto. E a conferma di ciò, in un passo cruciale contenuto in quello straordinario testo di poetica che è la Lettre du voyant, A. Rimbaud sul conto del suo predecessore ebbe giustamente a dire “Ma poiché indagare l'invisibile e ascoltare l'inaudito è una cosa diversa dal riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire è il primo veggente, re dei poeti, un vero Dio”. Veggenza a cui il poeta giunge attraverso quell’auspicato “lungo, immenso e ragionato sregolamento dei sensi”.
Tale dichiarazione implica che egli spingendosi oltre le
possibilità e i limiti invalicabili della stessa speranza umana, ha di fatto
compiuto il suo viaggio nell'ignoto per riportare, nell’insieme di una
percezione sinestetica del nuovo.
Ma ben guardare la sua vita è stata vissuta anche in un periodo storico
problematico, che vede la nascita di immortali
geni dell’arte, delle scienze filosofiche, e delle grandi invenzioni
scientifiche. Ma è pure un
secolo caratterizzato da gravi tensioni sociali e politiche diffuse, dove l’inasprirsi della situazione
interna alla Francia del secondo Impero, soprattutto a Parigi, sfocerà nella
feroce repressione della Comune. In conseguenza a questi profondi cambiamenti
epocali, le grandi città, dove si concentrano i più importanti centri di
produzione, sono in pieno sviluppo, calamitando attorno ai nuclei urbani masse
di diseredati in cerca di occupazione, che confluiscono negli Slums sorti
nelle sterminate periferie, dove il fenomeno dell'emarginazione alimenta
l'alcolismo, la prostituzione, la violenza, la criminalità, che dilagano a
dismisura, creando di conseguenza dei luoghi senza legge. Preludio di un mondo
periferico che ad oggi si estende fino a circondare le capitali, inglobando, a detta
del poeta e drammaturgo tedesco Hans Magnus Henzensberger, “quella provincia che si riconosce essere
dappertutto, perché il centro del mondo non sta più da nessuna parte”. E
questo processo di radicale trasformazione della società lascerà negli animi
più sensibili una profonda impressione.
L’esilio come tema fondante de Il Cigno, porta alla memoria una lista
troppo lunga e penosa, formata dai nomi, noti o meno noti, di tutti quegli
intellettuali, vessati, condannati, o costretti a lasciare il loro paese
d’origine per avere espresso liberamente il loro pensiero, ed opposto con
lucida determinazione i contenuti delle loro opere contro il regime repressivo
messo in atto dal despota di turno. Ma di pari passo il suo potere comunicativo
si dimostra un fatto di innegabile rivincita anche nei confronti della più
infausta bandiera. Baudelaire dedica la poesia Il Cigno al
poeta Victor Hugo, la cui stesura è collocabile intorno all'anno 1859, data che fa riferimento al
lungo periodo di esilio politico che l’autore de I Miserabili ebbe da scontare nell’isola di Guernsey conseguentemente ai
rivolgimenti politici provocati dal colpo di stato da parte di Napoleone III.
La lirica, suddivisa in due sezioni, consta di sette quartine la prima e sei
quartine la seconda sezione, è scritta per intero in versi Alessandrini a rima
alterna, ed inserita nel gruppo dei “Tableaux
parisiens" (Quadri parigini). Ma in senso
più esteso Il Cigno di Baudelaire, è una poesia dedicata a tutti i
vinti della vita, e a mio avviso la si può considerare come una anticipazione
del Ciclo dei Vinti, composto quasi mezzo secolo più tardi da G.
Verga. In una lettera inviata allo stesso Victor Hugo, nella quale risalta
in primis la sua preoccupazione per il destino umano, Baudelaire spiega in
breve le ragioni della sua ispirazione: “Sono versi fatti per voi e pensando
a voi. L'importante, per me, era di dire in breve tempo tutte le suggestioni
che un fatto casuale, un'immagine possono contenere, e come la vista di un
animale sofferente faccia volgere lo spirito verso tutti gli esseri che amiamo,
che sono assenti e che soffrono”. Come risulta evidente, da questo brano
della epistole è già possibile ottenere in anticipo l'impronta di un tema che
riguarda da vicino il suo vissuto, ed è per l'appunto il tema del distacco,
della lontananza, e della perdita.
Nel periodo relativo
alla composizione de Il Cigno,
Baudelaire assiste impotente alla sistematica opera di sventramento dei vecchi
sobborghi della Parigi di metà ottocento, di cui molti edifici erano comunque
andati perduti sotto i duri cannoneggiamenti durante la soppressione dei moti
del '48. La demolizione di tali quartieri, avrebbe dato adito ad un nuovo
assetto urbanistico comprendente l'edificazione di imponenti edifici, tra i
quali figura l'ampliamento del Louvre, e la realizzazione dei Boulevards, che oltre
ad agevolare il fluire del traffico, impreziosire la città di ampie
prospettive, furono oltremodo concepiti con una funzione strategico-militare per
dare spazio d'azione all'artiglieria pesante da opporre in previsione di nuove
insorgenti sommosse. Si presume che Baudelaire era solito frequentare tali
sobborghi per lo più costituiti da modesti edifici, casupole, baracche. Ed è da
un simile contesto da cui derivano quei versi sottesi a mettere in evidenza
l'azione indiscriminata che l'uomo esercita sul proprio ambiente, e da cui
traspare un mondo cancellato in modo irreversibile, l'insieme di un luogo
disgregato con una rapidità del tutto imprevista, che si ripercuote con
violenza sullo spettatore per separarlo definitivamente dal preesistente e
precipitarlo nel vuoto, in una sorta di sgomento che lo disorienta. Versi da dove
risalta con lucida chiarezza la disparità di tempi che intercorre tra la
velocità schiacciante dei mutamenti esogeni, quindi esterni all'uomo, e la
lentezza inesorabile dello sviluppo proprio interiore. E scriverà: La
vecchia Parigi scompare, più veloce del nostro cuore muta una città, a
sotto intendere appunto l'involuzione della spiritualità nell'uomo a confronto
dell'inarrestabile avanzata del progresso tecnico-scientifico. Motivo questo di
cui Baudelaire era un convinto assertore. Quindi ne Il Cigno per quella
complessità propria delle accezioni finora ravvisate, c’è da aggiungere che va
diversamente intesa anche come poesia del mutamento e del valore affettivo che
si conferisce ad un luogo E sono proprio le macerie dei quartieri popolari
adiacenti alla attuale piazza del Carrousel
gli scenari che, quasi ad evocazione delle rovine di Troia, faranno da sfondo
alla lirica, giusto davanti al Louvre, dove si presuppone che egli abbia
intravisto il suo “grand cygne”. Ma questo cigno patetico
che trascina le ali nel fango, che raspa il selciato con i piedi palmati, viene
ulteriormente presentato con una serie di aggettivi che delineano a priori le
affinità con il poeta esiliato, oramai divenuto rifiuto della opulenta società
borghese e delle macchine, e cioè “l'essere infelice, il mito strano e fatale”, “l'esule
comico e sublime, morso da un desiderio senza fine”. Ma allo stesso
tempo in questi due versi possiamo scorgere un cigno che, estrapolato dal suo habitat
naturale, è impossibilitato
a compiere il ciclo di vitale sopravvivenza e di continuazione della specie nel
seguire l'innato istinto che lo guida alla riconquista della libertà nel volo
attraverso le rotte di migrazione. E lo descrive “Col cuore ancora colmo di
nostalgia del bel lago natale”, o meglio percepito nella sua reale e
profonda desolazione animale, come a dargli un'anima. Quell’anima tormentata,
ripresa nell’atto di struggersi al ricordo indissolubile che serba del suo
lontano luogo di origine che non potrà raggiungere mai più, e che in certo qual
senso si configura come metafora del mortificato ideale di libertà dello stesso
Baudelaire, e quindi in senso più esteso del Poeta in Esilio. Ed oltre, lo
immortala innalzandolo finanche ad umanizzare questo cigno; “Io lo vidi, / a
tratti come l'uomo d'Ovidio verso il cielo / sul frenetico collo tender l'avida
testa / quasi a rimproverare Dio”. Il paragone è per certo tratto da Ovidio Libro I delle Metamorfosi, dove il poeta latino teorizza che “L'uomo ebbe
il dono di un viso rivolto verso l'alto perché il suo sguardo potesse mirare al
cielo e levarsi verso le stelle”.
Secondo i dizionari dei simboli, da cui un breve excursus
nella tradizione mitologico-letteraria, che affonda le sue radici nella cultura
della Grecia antica, permette di avere un’immagine del Cigno, come “l'essere uranico, carico di mistero sacro,
simbolo della musica e del canto, di purezza e di elevazione, emblema del poeta
ispirato, forza stessa del poeta e della poesia”. Quindi, come è già possibile presumere,
l’operazione di Baudelaire consiste precisamente nel ribaltare il senso delle
concezioni mitico-elettive finora attribuite alla figura del cigno. Un ribaltamento
al negativo che non vuole essere dissacrazione di quell’immagine, ma un vedere,
secondo l’ottica dell’osservatore, su di una creatura così aggraziata e
indifesa abbattersi le negatività del mondo, si da assumere quelle desuete
accezioni simboliche più consone ad esprimere la nuova realtà che il poeta
osserva venirgli incontro. Accezioni che comunque, oltre le già evidenziate,
vanno da quella della bellezza oltraggiata, per ricondurci via via a quella del
poeta che fa il suo ingresso nella modernità, epoca nella quale, che come
afferma J.P. Sartre nel suo esaustivo saggio su Baudelaire, “La classe
borghese non conferisce più ai poeti la dignità e la protezione che poteva
garantirgli la corte. Un fatto questo, che verrà a determinare una
condizione di isolamento di molti artisti, che diverranno sempre più simili ad
una categoria dispersa e perseguitata, in esilio per l’appunto, alla quale non
rimangono altro che gli strumenti della parola scritta e del proprio ingegno
creativo. Ed è sulla base di questi presupposti che il poeta,
darà sfogo alla sua invettiva innescando uno scontro contro il potere, verso
cui non mancherà di lanciare uno dei suoi proverbiali e sarcastici razzi: “Se
un poeta domandasse allo Stato il diritto d'avere nella sua scuderia alcuni
borghesi, grande sarebbe lo stupore; se invece un borghese domandasse un po' di
poeta arrosto, la cosa sembrerebbe naturalissima”.
Cosciente del degrado derivante dal moderno
processo di civilizzazione responsabile della perdita dei valori del passato, e
dai repentini e radicali mutamenti che subisce l'ambiente e la conseguente
disgregazione del tessuto sociale a cui poco prima era legata la sua esistenza,
il poeta descrive con lacerante nostalgia alcuni tratti marginali della città,
fatta di umili e povere cose. E in strofe pregnanti di evidenti reminiscenze
dei luoghi che oramai rivivono solo nei ricordi, così scrive: “Solo con gli
occhi della mente vedo / la distesa delle baracche, capitelli / sbozzati, fusti a
mucchi, massi verdastri per le pozze limacciose, il confuso / bric-à-brac che
riluce dalle vetrine. E nel primo verso della seconda sezione de Il Cigno reitera il motivo sulla città
che muta d'aspetto: “Parigi cambia - ma niente nella mia malinconia / s’è
spostato: palazzi, impalcature, / case, vecchi sobborghi, tutto per me diventa
allegoria, / più saldi di rocce sono i miei ricordi”, attestando
ancora una volta, nello sforzo di riesumare il volto di un mondo perduto, la
potenza evocativa della memoria. E il tutto, nel complesso linguaggio semantico
che egli ci dispiega d'innanzi, sarà enunciato adoperando i termini e i segni
che gli sono più affini e congeniali per renderci partecipi del passaggio
violento di un'epoca, di una civiltà, se non addirittura di una mutazione
antropologica di cui egli è il lucido testimone.
Il Cigno, quale figura centrale
dell’intero componimento, assunto a simbolo della tragedia e della decadenza
umana, si connota infine a immagine evocativa di personaggi divenuti ostaggio
di una realtà schiacciante, opprimente, tra cui spicca già ad apertura della
lirica l'alta e drammatica figura di Andromaca, la quale rientra nel
mito come la sposa fedele per antonomasia, nonché vedova e madre prostrata dal
dolore inconsolabile per la perdita delle persone a lei più care all'avvenuta
caduta di Troia. Donna provata dalla schiavitù, considerata alla stregua di un
qualsiasi bottino di guerra. Ed è quindi nella figura di quel Grande Cigno che
si trasfonde il mito di Andromaca, per le affinità che i due elementi
presentano, di cui la più evidente è quella loro perduta dignità regale. E in
versi di traboccante commozione e di tensione evocativa, così declama "È a
te che penso, Andromaca... Questo stento fiume, / misero, opaco specchio dove un
tempo/ rifulse immensa, la maestà del tuo dolore,/ questo Simoe bugiardo che
ingrossa del tuo pianto.
Nonché, alla quarta strofa della seconda
sezione della lirica, il pensiero dell’autore è rivolto a un'altra
figura-chiave che apre ancora sul desolato scenario ai margini della grande
città. Ed è la Negra afflitta dalla tisi, una sorta di Andromaca nera, che ha
lasciato la sua Africa per immigrare verso le terre fredde e ostili del nord.
Figura con la quale Baudelaire ci pone di fronte alla secolare condizione di
sfruttati e di emarginati che i negri hanno ereditato dallo schiavismo e dal
colonialismo, nonché inverosimilmente ci riporta alla attuale tragedia che sta
interessando l’epocale ondata migratoria proveniente soprattutto dal continente
Africa, e scrive: “Penso alla negra tisica e smagrita / che
strisciando nel fango s'affanna, stralunata / dietro l'immenso muro della nebbia
a vedere / gli assenti alberi di cocco dell'Africa superba”.
“La
capacità di sentire col cuore non è propizio al lavoro poetico”, questo è quanto ci dice Baudelaire, per
farci intendere che la facoltà di esprimersi con il sentimento è opposta a quella della fantasia, quale risorsa portentosa atta a scardinare e trasformare
le logiche che regolano il mondo
visibile. Facoltà da cui scaturisce quell’immaginazione, quella veggenza che guarda Oltre, e per mezzo della quale egli getta un ponte tra le epoche
lasciandoci intravedere la sofferta e travagliata condizione di esistenza che
segue l’uomo nel suo divenire. Quindi, creando con inequivocabile esattezza
matematica una immagine-simbolo di potente impatto emotivo, nell'immaginario
del poeta il cigno acquista un ulteriore
senso, e divenire un segno di immutabilità del destino umano
soggiogato dagli eventi funesti e irreparabili della storia. Per cui le figure
di Andromaca, la Negra tisica, e quella parte a seguire di categorie di emarginati e
di senza nome che egli nomina negli ultimi due versi, come ad esempio: “…chi ha perso ciò che non si trova mai più, i
magri Orfani, i Marinai lasciati nell’oblìo, i Prigionieri, i Vinti”, e
quel “… agli altri, ad altri ancora!", a sua volta sono presentanti secondo un ordine di apparizione tale che il
lettore viene a trovarsi come proiettato attraverso una linea di congiunzione
venuta a costituirsi fra i tre fondamentali periodi del tempo: - passato - presente - futuro -. E questo rappresenta il dato più
stupefacente che ci è concesso di ravvisare nello svolgersi dell’intero
componimento, in quanto la poesia Il Cigno sottesa a riportare dati
invariabili di una dolorosa condizione esistenziale dell'uomo, nel suo insieme
si può considerare una parabola del Male che lo affligge, dell’Abisso dove precipita, del Nulla come esperienza del non senso
vissuta nel profondo dell’essere, per coincidere infine col concetto dell’Infinito
in senso strettamente baudeleriano, in quanto: “L'Infinito per Baudelaire è
esattamente ciò che non è mai finito, e che non avrà mai fine”. Perché
comunque è con la figura di Andromaca schiavizzata da Pirro, che Baudelaire
vuole rappresentare il passato. E attraverso il mito ci conduce là dove quelle
forze inestinguibili che scaturiscono dall'individuo nell'affermazione della
sovranità dell'Io in preda al deliro di onnipotenza, appaiono nel pieno della
loro manifestazione di brutale sopraffazione. Di una brutalità ancora allo stato
puro, o meglio meno mistificata del primitivismo che sopravvive nell'uomo
moderno. Ed ancora, è con l'immagine della Negra tisica e smagrita, che
Baudelaire ci vuole indicare il presente, anche se riferita a quel suo lontano
presente da dove paradossalmente il male
di vivere si diffonde come un contagio fin oltre le soglie del terzo
millennio. E con quel “… agli altri, ad
altri ancora” dell’ultimo verso il poeta pare predire il destino dell’uomo
futuro. Facendoci presupporre d’altra parte il resto di un’umanità diversa, un universo che pullula di
emarginati che pur stando a stretto contatto con l'uomo emancipato dell'era
moderna versa nel degrado, o confinata in luoghi isolati e sperduti.
In definitiva, come recitano alcuni versi
di D. Walcott, c'è che in realtà “La violenza della bestia sulla bestia è
intesa / come legge naturale, ma l'uomo eretto / cerca la propria divinità
infliggendo dolore”. Una indubbia verità questa, che mostra ancora il
livello sottostante e animalesco dell'indole umana, nonostante i traguardi
raggiunti da un progresso tecnico-scientifico che non ha precedenti nella
storia delle civiltà, il quale a tutt'oggi non ha però minimamente scalfito
nell'uomo l'istinto distruttivo e omicida. Quello stesso progresso che
Baudelaire ha detestato e odiato, in quanto devasta e abbruttisce, mettendo
sotto accusa perfino la classe borghese che lo rappresenta, e che nella
raccolta di frammenti Il mio cuore messo a nudo attaccherà con
un altro dei suoi razzi: “Il progresso ha atrofizzato in noi tutta la parte
spirituale, cosa c'è di più assurdo del progresso, dato che l'uomo, com'è
provato dalla realtà quotidiana, è sempre simile e uguale all'uomo, cioè allo
stato selvaggio”. Da ciò appare
chiaro che egli è profondamente deluso dal fatto che l’avvento del nuovo
cristianesimo, che forse si aspettava in vita, in realtà non è mai avvenuto. Ma
con simili affermazioni credo che Baudelaire non intenda liquidare
definitivamente il progresso per disfarsene, il suo risentimento e il
suo disappunto sono pienamente giustificati in quanto egli lo ritiene inutile e
inadeguato a ragione di un dignitoso ed equilibrato sviluppo interiore
dell'uomo.
Come già detto, e del resto affermato
dallo stesso Baudelaire nella lettera inviata a V. Hugo, il canto che egli
innalza da un mondo perduto e dimenticato, è comunque un modo di farsi carico
dell'esistenza altrui. È il canto del “Je pense”, voce del verbo pensare
dichiarato per ben tre volte, e ripreso ancora,
ma per sottointesi: io penso - a chi ha
perduto ciò che non si trova / io penso -
ai magri orfani / io penso - ai
marinai / io penso - ai vinti / io
penso - agli altri, ad altri ancora, quasi un’ossessione in uno
spasmodico rivolgere il pensiero ad altri. E non importa se questi altri siano
presi in prestito dalla mitologia, o che il caso glieli abbia messi sulla sua
strada, o creature che appartengono al regno animale. Questi esseri, queste
creature, nonostante siano separate da lunghi millenni, o dalla loro
appartenenza a mondi diversi, o categorie umane differenti e anonime, sono
rappresentazione medesima ed eterna di un dramma umano che a tutt'oggi si
consuma all'ombra di un potere dispotico e corrotto, ai margini di una casta
sociale ricca e frivola, ridicola, e quel ch'è peggio, tra l'indifferenza delle folle anonime di sterminate
metropoli.
In conclusione, con il suo cigno Baudelaire ci invita a riflettere al confronto di una tragedia umana infinita, il cui insorgere coincide con il peccato originale. Questo è quanto egli pensa, secondo quel che rimaneva della sua educazione Cattolica, dopo che si era disfatto dei dogmi e dei riti che ormai riteneva inutili e lontani dalle vere necessità dell'uomo. Dunque una causa antica quanto il mondo, persa nel buio della notte primordiale e che si protrae nei millenni, per raggiungerci attraverso le vicende umane, e dirci che nell'uomo in fondo nulla è cambiato. E non ci detta regole o soluzioni, perché egli ha di certo intuito la natura incontrovertibile del cuore umano.
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