ECOPOESIE - Collezione III

ECOPOESIE - COLLEZIONE III

Introduzione
La terza Collezione arriva, per fatale coincidenza, in un momento assai drammatico per la Sicilia, che è in ginocchio a causa delle forti piogge. Queste, di "una quantità che solitamente si registra nell'arco di alcuni mesi", come si legge su ansa.it, hanno provocato nella parte orientale dell'isola ingenti danni e diversi morti.
Sarà lecito, allora, considerare questo ennesimo evento come un ulteriore segno di prossimità dei "punti di non ritorno" fissati dagli scienziati intorno all'anno 2050, superati i quali non potremo più tornare indietro? Probabilmente. E dove andremo quando avremo reso inospitale la nostra "casa comune"? Su Marte, forse? Forse. Si vedrà.
Con la terza Collezione intendiamo alzare l'ennesimo grido di dolore, di protesta e di denuncia contro i soprusi commessi ai danni dell'ambiente, ma anche d'amore per la nostra amata Terra e di speranza per l'avvenire delle future generazioni.
Gli autori qui presenti, i quali Poetaretusei432 caldamente ringrazia, sono: Claudio Damiani, Paolo Polvani, Claudia Di Palma, Sara Ferraglia, Tilde Scarpa, Dario Randazzo, Adriana Gloria Marigo, Lorenzo Allegrini e la pittrice Valeria Miceli.

Salvatore Randazzo
il 31 ottobre 2021


TI REGALO QUESTA PIANTA
Claudio Damiani (San Giovanni Rotondo, FG)

Ti regalo questa pianta.
Ecco, lei non vede
e non sente, ma ti sente
se tu le accarezzi le foglie,
sente il tuo alito
se le parli.
Lei non sa di essere regalata,
non sa cosa significa la parola
regalare,
passa dalle mie mani alle tue
e starà dove la metti.
Tu non metterla troppo alla luce
ma nemmeno troppo all’ombra,
non darle troppa acqua
ma non dargliene troppo poca.
Lei lo vedi come sta quieta
e è disposta a tutto.
Lascia che le cose accadano
e è disposta a trovare in ogni cosa
qualcosa di bello.



DOVE SONO I NUGOLI DI MOSCHE?
di Paolo Polvani (Bari)
 
Dove sono i nugoli di mosche,
gli assalti di zanzare, quei perniciosi ronzii
che insanguinavano le notti, e le cicale?
quelle magniloquenti sinfonie che i rami storti
degli ulivi irradiavano come un gesto di fede,
una presa d’atto dell’esuberanza della vita,
una pronuncia notarile irrorata dalle chiome
spumose di pinete, un fertile ululato
delle voglie di luglio, le mosche che volavano
con evidente libidine intorno a un impervio trofeo
di cacca, e il ricamo lieto delle vespe, le api
nelle operose divise, i calabroni
agghindati come bombardieri,
le infinite vite, dov’è finito l’impero degli insetti?
quanto più ci parla, quanto più ci avvicina
alla nostra fine?



ECCO L'ALTROVE. ECCO L'IMMONDO.
di Claudia Di Palma (Maglie, LC)
 
Ecco l’altrove. Ecco l’immondo.
Non è una stanza immacolata, ospedaliera.
Non è una tavola imbandita a festa,
il piatto caldo della domenica.
È la mensa per i poveri e i barboni,
un simulacro di pane a macerare sotto il sole,
una lattina, un pezzo di carta.
Quando le cose perdono la loro identità
vengono qui, nel bidone dell’indifferenza.
Porgono l’altra guancia, quella opaca, dismessa,
e ci perdonano.
Per questo spreco, per tutta questa luce.
Per ogni mano che mendica l’inferno.
È qui, ai margini del cielo, sull’asfalto bollente,
l’altrove. È un sacchetto per la spazzatura,
dove le cose stanno vicine, strette
in un abbraccio, per non finire.



ANTROPOCENE.
di Sara Ferraglia (Pastorello, PR)

Forse hai dimenticato che ero bella
quando mi hai vista per la prima volta.
Liberamente pura respiravo
dai pori aperti di una fresca pelle.
Limpida e trasparente d'acqua avvolta
lussureggiante a te io mi donavo.
 
Il mio dolore come canto sale
dal mio corpo violato e depredato,
dal cuore ardente che mi pulsa al centro.
Tutto ti lascio fare, tutto il male
da secoli, da quando ti ho ospitato
e sempre più mi sei entrato dentro.
 
Nelle mie vene scorre sangue nero
che tu, vampiro, succhi avidamente.
Preziosa la mia carne che perfori,
ne fai diamanti e oro del tuo impero.
Mi prendi tutto e non t'importa niente
se insieme a me, col tempo, anche tu muori.
 
Livido il corpo mio non si rassegna
alla violenza tua dura e costante,
al quotidiano insulto della tua presenza.
Esplode il pianto e dentro tutto trema
in un sussulto, un grido devastante.
Amami per salvare la tua essenza.



LA MACCHIA E LA LAMA
di Tilde Scarpa (Torre Annunziata, NA)

Folto, rigoglioso,
è verde il mio polmone.
Profumato,
cinguettoso buongiorno sei al mattino.
Tocchi il tempo
con canti assordanti di cicale.
Nel cielo ambrato saluti
e
annunci la sera
nel battito d’ali di una civetta.
Soffia il vento,
forte ti piega in una danza senza inchini.
Per sua mano,
ad una ad una,
cadono le tue chiome:
piangenti sotto la lama.
Tornano a casa le mamme,
le operaie,
nei loro sguardi
il terrore.
Non più un nido.
Non più una regina.
La tua resa è cieca ai suoi occhi.
La tua preghiera è muta ai suoi orecchi.
Muore con te il mio spirito
e
I N T E R M I T T E N T I
Cadono le mie lacrime
Come foglie.



UNA NUOVA LINFA, UNA LINFA SINTETICA
di Dario Randazzo (Siracusa)

Esiste un solo granello di suono che potrebbe rifarvi vibrare al ritmo del Creato.
Ch'è tanto semplice e soave che ne avete ignorato, nei secoli, la sua naturale Essenza.
Che ci si illuda pure di pensare a dargli un nome ideale da far danzare nel ventre d'un canto...
Mai oltre ti affacciasti, uomo, se non ai limiti del tempo e dello spazio.
Eppure c'è chi sa di non esserci, in verità!
E coloro i quali degni di nessuna devozione eletti a santità mortificano gli Eroi grandiosi d'ogni tempo e d'ogni luogo!
Che enorme peccato commetteste ad aderire allo stupro innaturale...
Nonostante il vostro sangue si stia tingendo d'altro colore, con oltraggiosa indifferenza ve ne restate inermi sperando in un avvenire luminoso (Che non arriverà).
Si torni pure a pensarmi pazzo quando dirò, a piena voce e con pieno orgoglio, di non sentirmi un uomo uguale a voi.
Aiutatevi - semmai foste in tempo - che pure il vostro 'Dio' v'ha voltato le spalle!



*
di Adriana Gloria Marigo (Luino, VA) 

I focolai del mondo crepitano
d’un fuoco sinistro selvaticante

la luce opalina
di calura bassa
tradisce i connotati del lago,
eppure la sentenza del tempo arde
accanto.

Sull’arido, il petroso
come una fede
indomabile splende il genio verde.



APOCALISSE POP! (CANTO VII)
di Lorenzo Allegrini (Milano)
 
Giungevano in un grande refettorio
tutti i Santi del nostro calendario
in risposta all’appello. Il dormitorio
custodiva il salone del plenario
consesso. Affrescate volte a botte
di figure un folle campionario
ostentavano, e fiamma che inghiotte
dei dannati irradiava il Giudizio
prima del tempo. Gli angeli a frotte
suonavano la tromba in sodalizio
nelle lunette, e al centro stava un Cristo
imberbe e bello; da un orifizio
di luce decideva, in folle immisto,
il destino dell’anime mietute.
Se penso ai corpi persi mi rattristo.
Allora, quando furono sedute
le Personalità, s’aprì uno schermo
come al cinema. «Le ricadute
- disse San Luca - del giorno infermo
dei peccatori, sul vecchio mondo
che fu d’ognuno, vi mostro in un sermo
d’immagini che pare furibondo
ma è reale. Questo ora accade
lassù». In un boato quello sfondo
illuminò ferocia che pervade
una natura che perde il controllo.
«Tutto finisce, brucia, scoppia, cade!»,
Luca gridò ai presenti. E un crollo
invase il video: Tokyo che franava
frantumata, la polvere in decollo
sul terremoto truce che spaccava
il suolo. Mosca di vampe, corrosa
dalla pioggia che nera la frustava
di acidi e petroli. Velenosa
l’aria calda vinceva il freddo forte,
come un’immensa unghiata astiosa
lei sfregiava i colori delle torte
che San Basilio formano. Annegata,
New York spuntava con punte contorte
di grattacielo, da lingua agitata
d’Oceano; parevan cento mani
alla ricerca vana e disperata
d’ossigeno. Migliaia di vulcani
vomitavano rancori roventi
dai loro ventri antidiluviani;
il Vesuvio mangiò Napoli, e spenti
antri pure riaprirono le bocche
sputando in alto dei getti bollenti
e strisciando sui campi scure nocche.
Roma franò fra le proprie rovine,
con case povere e chiese barocche
l’une sull’altre, nel fango incline
a mescolarle insieme nell’oblio.
Il cielo, tuono di scrosci e diossine,
batteva a terra come balbettio
di un tamburo, e con schiaffi di vento,
la furia del tifone che ha Dio
nei palmi, provocò l’affossamento
della torre d’acciaio di Parigi,
un dinosauro mansueto e sgomento.
I capricci bestiali del Tamigi
cancellarono Londra, diventata
una discarica putida, in grigi
liquami ed in rottami impaludata.
Dissanguavano fiumi i continenti
come fiotti impazziti, efferata
rabbia li rese paurosi serpenti
di strangolare montagne capaci.
In Amazzonia incendi violenti
con denti divoravano voraci
di sconfinate foreste i polmoni.
Vedemmo il verde fra quelle fornaci
sparire in fumi e lente consunzioni,
spegnendo gli ultimi respiri in vita.
I sette mari, d’onde e collisioni,
da una pazzia posseduti inaudita,
si ribaltarono, e gli abissi,
su quella superficie inferocita,
pesci mostruosi, figli di un’eclissi,
sulle creste sputavano dei flutti.
Niente era così prima che sparissi
giù all’inferno! Morivano tutti
come insetti, tra ronzii ed echi
di fioche urla, da Paesi distrutti:
agli angoli del mondo quattro biechi
angeli scatenavano più venti
rendendo l’acqua di sangue e ciechi
gli orizzonti. Da tali tormenti,
e dalle cavallette e da scorpioni
di uomini a Pechino dei torrenti
fuggivan preda di quei pungiglioni,
se tatuati col marchio del peccato.
Erano orride aberrazioni
della natura, gonfie d’acetato
velenoso, e infestavano anche Rio,
dove il gran Cristo era precipitato,
dimostrando che non serve a Dio
una statua che ostenti santità.
Dall’Africa all’Arabia un polverìo
di deserti impennati e gravità
sconvolta, offuscavan tutto l’etere
con sabbie ocra, nell’opacità
di una tempesta che potea competere
con di detriti una buia farragine.
Nel giorno che non si potrà ripetere
Gerusalemme era una voragine
che come dalla tana un formichiere
- ho ancora ben chiara quell’immagine -
degli ignavi in fuga le schiere
risucchiava di nuovo nell’Averno.
Ciò che mi fu evidente vedere,
potente come pugno allo sterno,
era la scienza dalla religione
preceduta, e veemente il Padreterno,
nel causare dell’uomo l’estinzione,
senza pietà per chi aveva fallito
la strada pia della sua redenzione.
Luca fermò il film, indicò col dito:
«Io vi ho mostrato la morte di massa
- gridò nell’aula - il chiasso inaudito,
la fine che il passar del tempo squassa
ed interrompe, perché voi preghiate,
mentre l’umanità con strazio passa
a miglior vita o a pene dannate,
ché Maria vuol vedervi sanguinare
dagli occhi e dalle mani avvinghiate.
M’è apparsa in sogno. Vorrebbe salvare
più anime possibili ai macelli,
e m’ha spiegato cosa si può fare:
i Santi implorino per i fratelli».
La torma beata in Cattedrale andò
contrita per la vista dei sfracelli,
ed alla supplica si dedicò.
Soltanto i santi guerrieri esentati
furono dalle preci. Tutto ciò
perché alcuni eran buoni soldati,
come fu in terra Ignazio di Loyola,
o la Giovanna d’Arco che su prati
gettò teste tranciate alla gola,
o colui che a Selem sconfisse il drago:
San Giorgio che con sè il bene arruola
perché di serpi non ancora pago.
Quale miglior pretesto a una crociata:
il male vero, non un volto vago!


(La tempesta di Valeria Miceli - Sortino, SR; carboncino su cartoncino cm 35x50)



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