Narra_Ti_Va?: Salvatore Sulsenti in "Cammino, perché correre mi siddia" (Cap. I)


Salvatore Sulsenti, siciliano, 55 anni, della provincia di Ragusa con un presente da appassionato di ultra walking (ha anche camminato per 100 km da Firenze a Faenza) e di creazione di complementi di arredo, nella logica del km zero ha iniziato a mettere su carta tutte le sue "avventure" di sportivo e di uomo. Un libro in cerca di editore, testimonianza dei sui 15.000 chilometri, e più, un po' romanzo e un po' manuale tecnico. 
Salvatore sta progettando una camminata da Catania fin sull'Etna, 35 km circa di salita in un'unica tappa e in autosufficienza. Per camminare, ma anche per raccontare un nuovo capitolo della sua vita.
Salvatore ha anche scritto per Gino & Michele, patron dello Zelig, pubblicando su Anche le formiche...; ha inoltre scritto per il periodico satirico L'Apodittico con lo pseudonimo di Manu & Sasù. Per il web ha scritto per Ridigratis.com curando la rubrica Doccia Fredda e per Donnissima.it.


Cap. I Cammino, perché correre mi siddia

Vivo in un mondo che mi scorre fra le mani troppo velocemente. Vivo in un mondo dove il tempo non mi basta mai. Sempre connesso, sommerso da email, messaggi, telefonate, appuntamenti. Ogni giorno formulo domande o fornisco risposte, il tutto con una frenesia inaudita. Io non voglio affannarmi. Voglio prendermela comoda, riflettere, perdere del tempo a guardare, osservare e anche a pensare lentamente senza sentirmi in colpa se mi attardo. Stu curriri mi siddia, questo correre mi annoia, mi infastidisce; questa velocità che sconfina nella distrazione colpevole, ma comoda, non è per me. Io sono pigro e voglio andare piano, non voglio correre, voglio accorgermi di tutto ciò che mi succede. Mi piace camminare e guardarmi intorno. Mi piace avere tempo per guardare la gente e ricordarne i volti. La stessa strada magari, gli stessi vicoli, gli stessi marciapiedi, eppure, ogni volta, quasi un mondo nuovo mi si rivela. Particolari che il giorno prima mi erano sembrati insignificanti sembrano animarsi ed attirano la mia attenzione. Un mazzo di fiori secchi davanti una finestra, il numero civico cadente della villa tinteggiata di azzurro, le palme che stanno per essere sfrondate, il vecchio trespolo di corda di un pappagallo altrettanto vecchio, la foto malamente ritoccata di un necrologio, il supermercato chiuso che rimanda alla imminente riapertura, con un cartello con su scritto “ni viremu cchia avanti”. Sono tutte immagini che registro e che vengono montate in un lungometraggio quotidiano, in un tutt’uno armonioso, personale, unico. Queste immagini che quando fanno capolino nei miei pensieri hanno il profumo dei gelsomini, della terra bagnata dalla pioggia. E poi c’è il vocio di un operaio assonnato, l’aroma dei cornetti appena sfornati dai bar e poi una sconosciuta che mi sfiora e che mi distrae con il suo profumo di agrumi. Camminare è più comodo che correre, più semplice ma innato nel mio DNA. Un grande vantaggio nel camminare, e non cedere alla velocità, al “curriri”, è muovermi piano, conquistando in punta di piedi il mio spazio, il mio mondo, da protagonista. Mi alleno su strade che conosco metro per metro, ho addirittura una fila di mattonelle preferita da percorrere, eppure riesco a trovare sempre un rinnovato piacere quotidiano in tutto ciò che ho intorno. Una realtà che non smette mai di essere prodiga di emozioni. Camminare mi allena all’osservazione, mi allena a stare attento e scoprire ad ogni passo un dettaglio nuovo. Con leggerezza ma con attenzione non mi faccio troppe domande e vivo una parte semplice e defilata per scelta strategica e non per carattere personale.
Camminare non è solo un susseguirsi di gesti ed azioni meccaniche ma una profusione di 
sollecitazioni interne ed esterne ed io non voglio perdermi nulla cedendo alla velocità. Mi piace avere il tempo di ascoltare il mio corpo, di sentire i miei muscoli tendersi pronti per il passo successivo. Ho l’impressione che la velocità del correre non mi darebbe il tempo di cambiare idea. La mia testa ed i miei quadricipiti devono scorrere all’unisono in avanti e questa sincronia richiede un investimento in termini di attenzione, di tempo e immediatezza. La rapidità con cui cambiare strada, salire o non salire un gradino o più semplicemente cambiare idea, mettere ordine fra i mille pensieri che si affollano in mente sarebbero messi in pericolo da una velocità che ti presenta il conto con una strada lastricata dalla distrazione. Mi piace vagabondare, ma con ordine. Mi piace avere il tempo di decidere o non decidere se voltare a destra o tirare dritto, se lasciarmi distrarre dal paesaggio o farmi dondolare dalle mie sensazioni e dai miei ricordi. Correre offrirebbe, ma solo in apparenza, un numero maggiore di istantanee, di diapositive del mio percorso, ma sarebbero meno nitide e prese da una prospettiva che non sarebbe più la mia perché a me stu curriri mi siddia. A camminare tutto mi sembra essere in armonia, tutto sembra disciplinato ed ordinato. Secondo me. Camminando, sia che piova o faccia caldo, sia che cammini su strada o in spiaggia o in campagna non mi sento mai fuori posto, come se facessi parte del tutto alla stessa stregua di una nuvola o di un albero. Camminando, andando lento, ho tutto il tempo per scattare le mie foto e mettere queste istantanee nel mio album da camminatore. Così facendo, prendendomi il tempo che mi serve, una vecchia panchina a cui il Comune ha sostituito delle assi di legno diventa attrice del mio film insieme al professore di matematica in pensione che mi ferma per lamentarsi del vicino. Camminare, e non curriri, mi dà l’occasione di ponderare bene la mia fuga. Camminare mi fa compagnia. E questo mi basta. A me piace camminare da solo, e non per assecondare la mia naturale inclinazione alla solitudine, ma per non compromettere la mia immaginazione. Camminare è un’arte lenta e che va esercitata con garbo e gentilezza, soprattutto con riservatezza. Camminando sono un gradito ospite della strada, ma pur sempre ospite. La ricompensa è non perdermi il millepiedi che cerca di tagliarmi la strada o il gatto con un solo orecchio o, durante le mie escursioni di walk trail, il puledro che mi si avvicina sperando in una carruba o la signora dai capelli corvini sorridente che con uno sguardo mi dice tutto di lei. Mi piace perdermi camminando, da solo, assecondando i miei ritmi, i miei umori, le mie voglie nonostante le regole della strada siano chiare e mi costringono a guardare dentro di me, schiaffandomi in volto tutte le mie debolezze.
Camminare mi lascia il tempo di cedere ad una stravaganza, battere il tempo con le dita delle canzoni della mia play list e lasciarmi andare anche alla commozione per il padre che stringe a sé il figlio, per i ragazzini che giocano a inseguirsi, per il volto scavato dal sole di un vecchio pescatore. Camminare, che vuol dire avere più tempo, è un modo per lasciarsi travolgere dai sentimenti che non possono essere sottaciuti o, addirittura, condivisi con compagni di viaggio.
Camminare da solo, e non curriri ccu l’autri, come sinonimo di libero arbitrio: quale strada, in città o periferia, in salita o discesa, di giorno o di notte, a quale andatura, quando fermarmi o ripartire. Nel riunirsi per una camminata la prima cosa che si chiede è quale sia il percorso, quanti siano i chilometri da fare mentre se esco da solo non ho domande da farmi perché tutte le mie curiosità, come una seconda pelle coperta da piccole gocce di sudore, verranno fuori lentamente scivolando sulla mia strada senza lasciarmi distrarre dal vocio dei miei compagni. E so che troverò le mie risposte, le trovo ogni giorno. Non cammino alla ricerca di una grande avventura, mi basta quel poco che ho dentro e che camminando tirerò fuori, magari al prossimo passo, al prossimo chilometro.
Cammino giocando con tutto ciò che incontro lasciandomi strappare al disappunto per una vita a volte ingrata. Mi lascio sedurre dalla mia fantasia. E, a pensar bene, camminare, anziché correre, è pure più democratico. Camminando lentamente si avverte meno ogni asperità e si entra debolmente ma con decisione nella vita che ci contorna. L’impatto sull’asfalto è meno traumatico per le articolazioni e ci si muove accarezzando la strada e non la si strattona mai. Nno curriri, nel correre, è insito il concetto di velocità rapportato ad una dose maggiore di agonismo. Nel camminare piano non importa che si sia ricchi o poveri, Accademici della Crusca o poco istruiti perché camminare è un po’ come “A livella” del Principe Antonio De Curtis. Senza nascondersi, senza celarsi all’evidenza, camminare mi porta incontro a chi desidera farsi incontrare e a volte succede che trovi ciò che cerchi senza sapere quando, basta cominciare a fare un passo dopo l’altro. In virtù di una fede magica, a camminare tutto mi sembra possibile e il mio futuro sembra più chiaro e dolce. Per camminare non servono le scarpe giuste ma la scelta giusta, una scelta che ci proietta in avanti con l’armonia e l’automatismo di un gesto atletico che ci segue fedelmente durante tutta la camminata. 
Cammino perché curriri mi siddia. Camminando faccio i conti con la mia storia e le mie ferite.
Per questo ho bisogno di un tempo lento.


[a cura di Salvatore Randazzo]

Commenti

  1. "A me piace camminare da solo, e non per assecondare la mia naturale inclinazione alla solitudine, ma per non compromettere la mia immaginazione." In questa frase sarà racchiusa anche la mia motivazione sconosciuta(fino ad adesso) nel declinare inviti a camminate di gruppo... Grazie per le riflessioni, per ciò che ho visto leggendo ed attendo di leggere il seguito.

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    1. .La camminata sportiva serve per sperimentare "l'assenza", perdersi e poi ritrovarsi. Ognuno di noi con una chiave di lettura unica ed incondivisibile. Camminare, e non passeggiare, diviene strumento di ascolto del nostro corpo e dei nostri pensieri. Muscoli che pretendono attenzione, sensazioni che reclamano spazio, pensieri ed emozioni che vogliono "volare" lontano non amano, nè necessitano, di compagnia. Salvatore Sulsenti

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  2. Mi pare di aver capito, dalla mia breve esperienza da 'sportivo', che la camminata e la corsetta siano paragonabili alla prima fase della meditazione, dove praticamente si viene investiti da un flusso alluvionale di pensieri, che poi, improvvisamente, si dissolve. E da lì, svuotati, si va come in automatico. È un po' come l'aver spezzato il fiato della mente.
    Grazie per la preziosa condivisione ricca di immagini e per gli spunti di riflessione, Salvatore.
    SRandazzo

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